Lucian Blaga,”Quelle der Nacht”-”Izvorul noptii”

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Schöne,
so schwarz sind deine Augen, dass am Abend,
wenn mit dem Kopf ich lieg in deinen Schoß gebettet,
mir ist,
als wären deine tiefen Augen jene Quelle,
aus der die Nacht rinnt über Täler,
geheimnisvoll, und über Berge, Fluren,
die Welt mit einem Meer
von Finsternis bedeckend.
So schwarz sind deine Augen,
o mein Licht.

-Aus dem Rumänischen von Roland Erb-
––––
Frumoaso,
ti-s ochii-asa de negri incat seara
cand stau culcat cu capu-n poala ta
imi pare,
ca ochii tai, adancii, sunt izvorul
din care tainic curge noaptea peste vai
si peste munti si peste sesuri,
acoperind pamantul
c-o mare de-ntuneric.
Asa-s de negri ochii tai
lumina mea.

Georg Trakl,”Abendlied – Cântec de seară”

 

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Georg Trakl, ”Cântec de seară – Abendlied”

Seara, când pe cărări întunecate umblăm
Ne-apar în faţă palele noastre făpturi.

Când însetăm

Din alba apă a iazului bem

Mierea tristei noastre copilării.

Obosiți în umbra socului ne odihnim,
Ne uităm după pescăruși cenușii.

Nori primăvăratici cresc deasupra orașului trist,
Timpul înalt al călugărilor tace atunci.

Când subțiri mâinile ți le prindeam
Tăcut deschideai ochii mari.
E mult de atunci.

Dar când melodii întunecate bântuie sufletul,

Apari, tu, albă, în peisajul toamnei prietenului.

 

-Traducere de Catalina Franco-
__________________________

Am Abend, wenn wir auf dunklen Pfaden gehn,

Erscheinen unsere bleichen Gestalten vor uns.
Wenn uns dürstet,

Trinken wir die weißen Wasser des Teichs,

Die Süße unserer traurigen Kindheit.
Erstorbene ruhen wir unterm Hollundergebüsch,

Schaun den grauen Möven zu.
Frühlingsgewölke steigen über die finstere Stadt,

Die der Mönche edlere Zeiten schweigt.
Da ich deine schmalen Hände nahm

Schlugst du leise die runden Augen auf,

Dieses ist lange her.
Doch wenn dunkler Wohllaut die Seele heimsucht,

Erscheinst du Weiße in des Freundes herbstlicher Landschaft.

Charles Baudelaire,”L’invitation au voyage”-”Invitation to the Voyage”

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Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble!
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble!
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l’ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l’âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l’humeur est vagabonde;
C’est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu’ils viennent du bout du monde.
— Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D’hyacinthe et d’or;
Le monde s’endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

––––––-

My child, my sister,
Think of the rapture
Of living together there!
Of loving at will,
Of loving till death,
In the land that is like you!
The misty sunlight
Of those cloudy skies
Has for my spirit the charms,
So mysterious,
Of your treacherous eyes,
Shining brightly through their tears.

There all is order and beauty,
Luxury, peace, and pleasure.

Gleaming furniture,
Polished by the years,
Will ornament our bedroom;
The rarest flowers
Mingling their fragrance
With the faint scent of amber,
The ornate ceilings,
The limpid mirrors,
The oriental splendor,
All would whisper there
Secretly to the soul
In its soft, native language.

There all is order and beauty,
Luxury, peace, and pleasure.

See on the canals
Those vessels sleeping.
Their mood is adventurous;
It’s to satisfy
Your slightest desire
That they come from the ends of the earth.
— The setting suns
Adorn the fields,
The canals, the whole city,
With hyacinth and gold;
The world falls asleep
In a warm glow of light.

There all is order and beauty,
Luxury, peace, and pleasure.

Rabindranath Tagore

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Donna, non sei soltanto l’opera di Dio,
ma anche degli uomini, che sempre ti fanno bella con i loro cuori.
I poeti ti tessono una rete con fili di dorate fantasie;
i pittori danno alla tua forma sempre nuova immortalita.
Il mare dona le sue perle,
le miniere il loro oro,
i giardini d’estate i loro fiori
per adornarti, per coprirti,
per renderti sempre piu preziosa.
Il desiderio del cuore degli uomini ha steso la sua gloria sulla tua giovinezza.
Per meta sei donna,
e per meta sei sogno.
______________
O femme tu n’es pas seulement le chef-d’oeuvre de Dieu,
tu es aussi celui des hommes: ceux-ci te parent de la beauté de leurs coeurs.
Les poètes tissent tes voiles avec les fils d’or de leur fantaisies; les peintres immortalisent la forme de ton corps.
La mer donne ses perles, les mines leur or, les jardins d’été leurs fleurs pour t’embellir et te rendre plus précieuse.
Le désir de l’homme couvre de gloire ta jeunesse.
Tu es mi-femme et mi-rêve.

Rabindranath Tagore

 

Rilke,”Orpheus. Eurydike. Hermes”

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Era la prodigiosa miniera delle anime.
Come vene d’argento silenziose
scorrevano il suo buio. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini
e greve come porfido appariva nel buio.
Di rosso altro non c’era.

Rupi c’erano,
selve incorporee e ponti sul vuoto
e quell’enorme, grigio, cieco stagno,
sospeso sopra il suo lontano fondo
come cielo piovoso su un paesaggio.
E in mezzo a prati miti di pazienza,
pallida striscia, un unico sentiero era visibile
come una lunga tela distesa ad imbiancare.

E per quest’unico sentiero essi venivano.

In testa l’uomo snello in manto azzurro,
guardando innanzi muto e impaziente
divorava la strada col suo passo
a grandi morsi senza masticarla. Gravi, chiuse,
dalle pieghe del suo manto pendevano le mani,
dimenticata ormai la lieve lira
ch’era incarnata nella sua sinistra
come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo.
Ed i suoi sensi erano in due divisi:
mentre l’occhio in avanti correva come un cane,
tornava ed ogni volta nuovamente lontano
alla prossima svolta era ad attenderlo –
l’udito gli restava – come un odore – indietro.
Talora gli sembrava di percepire il passo
degli altri due viandanti che dovevano
seguirlo fino al colmo dell’ascesa.
Poi nient’altro che l’eco del suo ascendere
dietro di lui e il vento del suo manto.
E tuttavia venivano, si disse
a voce alta, e udi perdersi la voce.
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,
i due. Se per un attimo
gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare
non fosse la rovina dell’intera sua opera
prima del compimento) li vedrebbe
i silenziosi due che lo seguivano:

il dio dei viandanti e del messaggio
lontano, sopra gli occhi chiari il petaso,
lo snello caduceo proteso innanzi,
e alle caviglie il battito dell’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.

La Tanto-amata che un’unica lira
la pianse piu che schiera di prefiche nel tempo,
e dal lamento un mondo nuovo nacque
ove ancora una volta tutto c’era: selva, valle,
paesi, vie, e campi, e fiumi e belve;
e intorno a questo mondo del lamento
come intorno ad un’altra terra, un sole
ed un cielo stellato taciti si volgevano,
un cielo del lamento pieno di astri stravolti -:
Lei, la Tanto-amata.

Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurita e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
cosi nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era in una verginita nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano cosi immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare l’offendeva.

E non era piu lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio letto;
né piu gli apparteneva.

Come una lunga chioma era gia sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.

Ormai era radice.

E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore,
esclamo: Si e voltato -,
lei non capi e in un soffio chiese: Chi?

Ma in lontananza – oscuro contro la soglia chiara –
qualcuno in volto non riconoscibile
immobile guardava
la striscia di sentiero in mezzo ai prati
dove il dio messaggero, l’occhio afflitto,
si voltava in silenzio seguendo la figura
che per la via di prima gia tornava,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza.
––––––
That was the deep uncanny mine of souls.
Like veins of silver ore, they silently
moved through its massive darkness. Blood welled up
among the roots, on its way to the world of men,
and in the dark it looked as hard as stone.
Nothing else was red.

There were cliffs there,
and forests made of mist. There were bridges
spanning the void, and that great gray blind lake
which hung above its distant bottom
like the sky on a rainy day above a landscape.
And through the gentle, unresisting meadows
one pale path unrolled like a strip of cotton.
Down this path they were coming.

In front, the slender man in the blue cloak–
mute, impatient, looking straight ahead.
In large, greedy, unchewed bites his walk
devoured the path; his hands hung at his sides,
tight and heavy, out of the falling folds,
no longer conscious of the delicate lyre
which had grown into his left arm, like a slip
of roses grafted onto an olive tree.
His senses felt as though they were split in two;
his sight would race ahead of him like a dog,
stop, come back, then rushing off again
would stand, impatient, at the path’s next turn,–
but his hearing, like an odor, stayed behind.
Sometimes it seemed to him as though it reached
back to the footsteps of those other two
who were to follow him, up the long path home.
But then, once more, it was just his own steps’ echo,
or the wind inside his cloak, that made the sound.

He said to himself, they had to be behind him;
said it aloud and heard it fade away.
They had to be behind him, but their steps
were ominously soft. If only he could
turn around, just once (but looking back
would ruin this entire work, so near
completion), then he could not fail to see them,
those other two, who followed him so softly:

The god of speed and distant messages,
a traveler’s hood above his shining eyes,
his slender staff held out in front of him,
and little wings fluttering at his ankles;
and on his left arm, barely touching it: she.

A woman so loved that from one lyre there came
more lament than from all lamenting women;
that a whole world of lament arose, in which
all nature reappeared: forest and valley,
road and village, field and stream and animal;
and that around this lament-world, even as
around the other earth, a sun revolved
and a silent star-filled heaven, a lament-
heaven, with its own, disfigured stars–:
So greatly was she loved.

But now she walked beside the graceful god,
Her steps constricted by the trailing graveclothes,
uncertain, gentle, and without impatience.
She was deep within herself, like a woman heavy
with child, and did not see the man in front
or the path ascending steeply into life.
Deep within herself. Being dead
filled her beyond fulfillment. Like a fruit
suffused with its own mystery and sweetness,
she was filled with her vast death, which was so new,
she could not understand that it had happened.

She had come into a new virginity
and was untouchable; her sex had closed
like a young flower at nightfall, and her hands
had grown so unused to marriage that the god’s
infinitely gentle touch of guidance
hurt her, like an undesired kiss.

She was no longer that woman with blue eyes
who once had echoed through the poet’s songs,
no longer the wide couch’s scent and island,
and that man’s property no longer.

She was already loosened like long hair,
poured out like fallen rain,
shared like a limitless supply.

She was already root.

And when, abruptly,
the god put out his hand to stop her, saying,
with sorrow in his voice: He has turned around–,
she could not understand, and softly answered
Who?

Far away,
dark before the shining exit-gates,
someone or other stood, whose features were
unrecognizable. He stood and saw
how, on the strip of road among the meadows,
with a mournful look, the god of messages
silently turned to follow the small figure
already walking back along the path,
her steps constricted by the trailing graveclothes,
uncertain, gentle, and without impatience.
––––––
Das war der Seelen wunderliches Bergwerk.
Wie stille Silbererze gingen sie
als Adern durch sein Dunkel. Zwischen Wurzeln
entsprang das Blut, das fortgeht zu den Menschen,
und schwer wie Porphyr sah es aus im Dunkel.
Sonst war nichts Rotes.

Felsen waren da
und wesenlose Wälder. Brücken über Leeres
und jener große graue blinde Teich,
der über seinem fernen Grunde hing
wie Regenhimmel über einer Landschaft.
Und zwischen Wiesen, sanft und voller Langmut,
erschien des einen Weges blasser Streifen,
wie eine lange Bleiche hingelegt.

Und dieses einen Weges kamen sie.

Voran der schlanke Mann im blauen Mantel,
der stumm und ungeduldig vor sich aussah.
Ohne zu kauen fraß sein Schritt den Weg
in großen Bissen; seine Hände hingen
schwer und verschlossen aus dem Fall der Falten
und wußten nicht mehr von der leichten Leier,
die in die Linke eingewachsen war
wie Rosenranken in den Ast des Ölbaums.
Und seine Sinne waren wie entzweit:
indes der Blick ihm wie ein Hund vorauslief,
umkehrte, kam und immer wieder weit
und wartend an der nächsten Wendung stand, –
blieb sein Gehör wie ein Geruch zurück.
Manchmal erschien es ihm als reichte es
bis an das Gehen jener beiden andern,
die folgen sollten diesen ganzen Aufstieg.
Dann wieder wars nur seines Steigens Nachklang
und seines Mantels Wind was hinter ihm war.
Er aber sagte sich, sie kämen doch;
sagte es laut und hörte sich verhallen.
Sie kämen doch, nur wärens zwei
die furchtbar leise gingen. Dürfte er
sich einmal wenden (wäre das Zurückschaun
nicht die Zersetzung dieses ganzen Werkes,
das erst vollbracht wird), müßte er sie sehen,
die beiden Leisen, die ihm schweigend nachgehn:

Den Gott des Ganges und der weiten Botschaft,
die Reisehaube über hellen Augen,
den schlanken Stab hertragend vor dem Leibe
und flügelschlagend an den Fußgelenken;
und seiner linken Hand gegeben: sie.

Die So-geliebte, daß aus einer Leier
mehr Klage kam als je aus Klagefrauen;
daß eine Welt aus Klage ward, in der
alles noch einmal da war: Wald und Tal
und Weg und Ortschaft, Feld und Fluß und Tier;
und daß um diese Klage-Welt, ganz so
wie um die andre Erde, eine Sonne
und ein gestirnter stiller Himmel ging,
ein Klage-Himmel mit entstellten Sternen – :
Diese So-geliebte.

Sie aber ging an jenes Gottes Hand,
den Schrittbeschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.
Sie war in sich, wie Eine hoher Hoffnung,
und dachte nicht des Mannes, der voranging,
und nicht des Weges, der ins Leben aufstieg.
Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein
erfüllte sie wie Fülle.
Wie eine Frucht von Süßigkeit und Dunkel,
so war sie voll von ihrem großen Tode,
der also neu war, daß sie nichts begriff.

Sie war in einem neuen Mädchentum
und unberührbar; ihr Geschlecht war zu
wie eine junge Blume gegen Abend,
und ihre Hände waren der Vermählung
so sehr entwöhnt, daß selbst des leichten Gottes
unendlich leise, leitende Berührung
sie kränkte wie zu sehr Vertraulichkeit.

Sie war schon nicht mehr diese blonde Frau,
die in des Dichters Liedern manchmal anklang,
nicht mehr des breiten Bettes Duft und Eiland
und jenes Mannes Eigentum nicht mehr.

Sie war schon aufgelöst wie langes Haar
und hingegeben wie gefallner Regen
und ausgeteilt wie hundertfacher Vorrat.

Sie war schon Wurzel.

Und als plötzlich jäh
der Gott sie anhielt und mit Schmerz im Ausruf
die Worte sprach: Er hat sich umgewendet -,
begriff sie nichts und sagte leise: Wer?

Fern aber, dunkel vor dem klaren Ausgang,
stand irgend jemand, dessen Angesicht
nicht zu erkennen war. Er stand und sah,
wie auf dem Streifen eines Wiesenpfades
mit trauervollem Blick der Gott der Botschaft
sich schweigend wandte, der Gestalt zu folgen,
die schon zurückging dieses selben Weges,
den Schritt beschränkt von langen Leichenbändern,
unsicher, sanft und ohne Ungeduld.

Pablo Neruda, ” Per il mio cuore”

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Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.
Dalla mia bocca arriverà fino in cielo
ciò che stava sopito sulla tua anima.

E’ in te l’illusione di ogni giorno.
Giungi come la rugiada sulle corolle.
Scavi l’orizzonte con la tua assenza.
Eternamente in fuga come l’onda.

Ho detto che cantavi nel vento
come i pini e come gli alberi maestri delle navi.
Come quelli sei alta e taciturna.
E di colpo ti rattristi, come un viaggio.

Accogliente come una vecchia strada.
Ti popolano echi e voci nostalgiche.
Io mi sono svegliato e a volte migrano e fuggono
gli uccelli che dormivano nella tua anima.

Hugo Mujica

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Una cicatrice d’acqua
e sempre lo stesso e
e mai,
piove
e la vita si riflette
in ogni goccia
che cade
sulla mano che attende.
poi non rimane niente, o rimane
il cadere:
la nervatura di una goccia
errando
su un vetro
come una cicatrice d’acqua,
come una trasparenza facendo segni
verso un bosco perduto
nell’infanzia della memoria.
–––––-
Una cicatriz de agua
es lo de siempre y
es nunca,
llueve
y la vida se refleja
en cada gota
que cae
sobre la mano que espera.
después no queda nada, o queda
el caer:
la nervadura de una gota
errando
sobre un vidrio
como una cicatriz de agua,
como una transparencia haciendo senas
hacia un bosque perdido
en la ninez de la memoria.
Hugo Mujica

Vinicius De Moraes,”Tenerezza”

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Io ti chiedo perdono di amarti all’improvviso
Benché il mio amore sia una vecchia canzone alle tue orecchie,
Delle ore passate all’ombra dei tuoi gesti
Bevendo nella tua bocca il profumo dei sorrisi
Delle notti che vissi ninnato
Dalla grazia ineffabile dei tuoi passi eternamente in fuga
Porto la dolcezza di coloro che accettano malinconicamente.
E posso dirti che il grande affetto che ti lascio
Non porta l’esasperazione delle lacrime ne il fascino delle promesse
Ne le misteriose parole dei veli dell’anima…
È una calma, una dolcezza, un traboccare di carezze
E richiede solo che tu riposi quieta, molto quieta
E lasci che le mani ardenti della notte incontrino senza fatalità lo
sguardo estatico dell’aurora.

Rainer Maria Rilke,”’Nona elegia”

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”Nona elegia”

Ma perché, se è possibile trascorrere questo po’
d’esistenza
come alloro, il verde un po’ più cupo
di tutto l’altro verde, le piccole onde ad ogni
margine di foglia (sorriso di brezza) – perché
costringersi all’umano e, evitando il Destino,
struggersi per il Destino?…
Oh, non perché ci sia felicità,
quest’affrettato godere di cosa che presto perderai.
Non per curiosità o per esercizio del cuore,
questo, anche nel lauro sarebbe…

Ma perché essere qui è molto, e perché sembra
che tutte le cose di qui abbian bisogno di noi, queste
effimere
che stranamente ci sollecitano. Di noi, i più effimeri.
Ogni cosa
una volta, una volta soltanto. Una volta e non più.
E anche noi
una volta. Mai più. Ma quest’essere
stati una volta, anche una volta sola,
quest’essere stati terreni pare irrevocabile.

E così ci affanniamo, e lo vogliamo compiere,
vogliamo contenerlo nelle nostre semplici mani,
nello sguardo che ne trabocca e nel cuore che non ha
parola.

Lo vogliamo diventare. A chi darlo? Meglio
tener tutto, per sempre… Ah, nell’altro rapporto, di là,
ahimè, che cosa portiamo? Non il guardare che qui
lentamente imparammo, e nessun avvenimento di qui.
Nessuno.
Allora le pene. Allora soprattutto quel senso di peso,
allora la lunga esperienza d’amore, – allora
soltanto quel ch’è indicibile. Ma poi
fra le stelle, che farne? son tanto meglio indicibili loro,
le stelle.
Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,
non porta a valle una manciata di terra,
terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,
pura, la genziana
gialla e blu. Forse noi siamo qui per dire: casa
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre. Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse,
nell’intimo,
mai intendevano d’essere. Non è forse l’astuzia segreta
di questa terra che sa tacere, quand’essa sollecita gli
amanti cosi
che ogni cosa, ogni cosa s’esalta nel loro sentire?
Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto
consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo…
leggermente.

Qui è il tempo del dicibile, qui la sua patria.
Parla e confessa. Sempre più
vengon meno le cose, quelle da viversi, perché
ciò che le butta per sostituirle è un fare alla cieca.
Un fare sotto croste che docilmente saltano appena che
l’interno lavorio dà fuori e si pone altri limiti.
Tra i magli resiste
il nostro cuore, come resiste
la lingua tra i denti
che resta tuttavia, tutto malgrado, per lodare.

Loda all’Angelo il mondo, non quello indicibile, con lui
non puoi sfoggiare splendore di sentimento; nell’Universo
dove egli sente più sensibilmente, tu sei novizio. E allora
mostragli
quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in
figlio
vive, cosa nostra, alla mano e sotto gli occhi nostri.
Digli le cose. Resterà più stupito; stupito come
rimanesti tu
dinanzi al cordaio a Roma o al vasaio sulle rive del Nilo.
Mostragli quanto una cosa può essere felice, quanto
innocente e nostra,
e come financo il dolore che piange, puro, s’induce a
forma
serve da cosa o muore in farsi cosa. – E beato,
al di là sfugge al violino. E queste cose che vivon di
morire,
lo sanno che tu le celebri; passano
ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più
di tutto.
Vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile
cuore
in – oh Infinito – in noi! Qualsia quel che siamo alla
fine.

Terra, non è questo quel che tu vuoi, invisibile
risorgere in noi? – Non è questo il tuo sogno,
d’essere una volta invisibile? – Terra! invisibile!
Che è mai, se non trasmutamento quello che sì
pressante ci commetti?
Terra, tu cara, accetto. Oh, credi, non ci sarebbe più
bisogno
delle tue primavere per guadagnarmi a te, una,
ah, una sola è fin troppo per il sangue.
Da lungi e senza nome io mi dichiaro a te.
Tu eri sempre nel giusto, e la tua santa pensata
è la confidenza con la morte.

Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro
vengon meno… Innumerabile esistere
mi scaturisce in cuore.

– traduzione di Enrico e Igea De Portu-
––––––-
”Elegia a noua”

De ce, când mai lesne-ar fi să-ţi petreci popasul existenţei
în chip de laur, puţin mai întunecat decât orice
alt verde, cu-acele vălurele (ca un surâs de briză)
pe marginea fiecărei frunze -: de ce atunci
suntem siliţi să fim om – şi destinul ocolindu-l,
să ducem dorul unui destin?
O, NU, pentru că EXISTĂ fericire,
acest pripit câştig al unei apropiate pierderi.
Nici din curiozitate, sau numai pentru deprinderea inimii
ce s-ar AFLA şi în laur…

Ci pentru că a fi aici este mult, şi pesemne
tot ce-i aici, pieritorul acesta, are nevoie de noi,
fiindu-ne în chip ciudat hărăzit. Nouă, cei mai pieritori. O DATĂ
fiecare lucru, O SINGURĂ dată. O DATĂ şi nimic mai mult.
Şi noi, de asemeni O DATĂ. Nicicând încă o dată. Dar aceasta –
O SINGURĂ DATĂ ar fi existat chiar dacă-i numai O DATĂ:
PĂMÂNTEŞTE să fi existat, nu pare cu putinţă a fi tăgăduit.

Şi-astfel ne zorim şi voim această-mplinire,
voim s-o încăpem în mâinile noastre umile,
în preaplinul privirilor şi în inima noastră fără cuvinte.
Să ne preschimbăm în ea însăşi voim. – Cui să o dăruim?
Cel mai drag ni-i să păstrăm totul mereu… Ah! în celălalt raport,
vai, ce-am putea lua cu noi dincolo? Nu privirea, încet-încet
învăţată aici, şi nimic din tot ce s-a petrecut aici. Nimic.
Durerile, deci. Deci, înainte de toate tot ce greu apasă,
deci lunga-ncercare a dragostei, – nimic, deci, decât – pur –
Denegrăitul. Dar, mai apoi
printre stele, la ce bun: ELE sunt CU MULT mai de nespus.
Nici pribeagul, de pe povârnişul muntelui,
nu duce în vale un pumn de pământ, de negrăit orişicui, ci
un cuvânt agonisit – unul pur – galbena şi vioria
genţiană. Suntem poate AICI să spunem: casă,
punte, fântână, ulcior, poartă, livadă, fereastră, –
şi mai înalt: coloană, turn… dar S-O SPUNEM, înţelege!
s-o spunem AŞA cum lucrurile nicicând în adâncul lor
nu şi-au închipuit că sunt. Nu-i oare tainic vicleşug
din partea tăcutului pământ când el îmboldeşte pe-ndrăgostiţi
ca în simţirea lor fiece lucru să suie-n extaz?
Pragul: ce este pentru doi îndrăgostiţi,
dacă tocesc puţin acest vechi prag al uşii,
după atâţia alţii câţi au trecut
şi-naintea celor care-or veni…, atât de uşor.

AICI este vremea ROSTIRII, AICI e patria sa.
Grăieşte şi mărturiseşte. Mai mult ca oricând
se prăbuşesc lucrurile-aici, cele pe care le poţi vieţui, căci
ceea ce le înlocuieşte spulberându-le e-o lucrare fără chip.
O înfăptuire sub cruste gata în orice clipă să crape
de îndată ce impulsul lăuntric creşte
şi astfel se îngrădeşte.
Între ciocane dăinuie
inima noastră, ca limba
între dinţi, dar care totuşi
slăvitoare rămâne.

Îngerului Lumea slăveşte-o şi nu Negrăitul; PE EL
nu-l poţi ului cu măreţe simţiri; în tărâmul
unde el mai deplin se simte, tu eşti doar un începător.
Tocmai de aceea, lui arată-i ceea ce-i simplu, lucrul pe-ncetul modelat din generaţie în generaţie
şi care vieţuieşte ca un bun al nostru, aici la-ndemână şi-n privirile noastre.
Rosteşte-i lucrurile. Se va opri uimit, aşa cum tu uimit ai rămas
în faţa frânghierului din Roma sau a olarului de pe Nil.
Arată-i cât de fericit poate fi un lucru, cât de fără vină şi-al nostru,
cum până şi geamătul durerii pur se-ntruchipează,
slujeşte ca un lucru, sau moare într-un lucru -, şi dincolo,
din trupul viorii, fericit, evadează. Şi aceasta,
că tu le slăveşti, o-nţeleg lucrurile din destrămare trăind;
trecătoare, ele se încred în noi ca într-un mântuitor,
noi, cei mai trecători.
Ele o vor, şi este datoria noastră să le prefacem în inima noastră nezărită,
– o, nesfârşit – în noi înşine! Indiferent ce-am deveni noi până la urmă.

Pământule, oare nu aceasta ţi-i voia: nezărit
în noi să renaşti? Nu-i oare visul tău
cândva să fii nezărit? Pământule! nevăzut!
Ce altceva dacă nu prefacerea e nepotolita-ţi menire?
Pământule, dragule, voiesc. O, crede-mă,
nu e nevoie de toate primăverile tale pentru a mă câştiga, – UNA,
ah! una singură e sângelui deja prea mult.
Fără de nume ţie îţi sunt hărăzit, şi de foarte departe.
Dreptatea totdeauna fost-a de partea ta şi e descoperirea
ta sfântă moartea în care te poţi încrede.

Iată, trăiesc. Din ce? nici copilăria, nici viitorul
nu se împuţinează… O fiinţare peste măsură
îmi irumpe în inimă.
-traducere – George Popa-
––––––

”Die neunte Elegie”

WARUM, wenn es angeht, also die Frist des Daseins
hinzubringen, als Lorbeer, ein wenig dunkler als alles
andere Grün, mit kleinen Wellen an jedem
Blattrand (wie eines Windes Lächeln) –: warum dann
Menschliches müssen – und, Schicksal vermeidend,
sich sehnen nach Schicksal?. . .

Oh, nicht, weil Glück ist,
dieser voreilige Vorteil eines nahen Verlusts.
Nicht aus Neugier, oder zur Übung des Herzens,
das auch im Lorbeer wäre . . . . .
Aber weil Hiersein viel ist, und weil uns scheinbar
alles das Hiesige braucht, dieses Schwindende, das
seltsam uns angeht. Uns, die Schwindendsten. Ein Mal
jedes, nur ein Mal. Ein Mal und nichtmehr. Und wir auch
ein Mal. Nie wieder. Aber dieses
ein Mal gewesen zu sein, wenn auch nur ein Mal:
irdisch gewesen zu sein, scheint nicht widerrufbar.
Und so drängen wir uns und wollen es leisten,
wollens enthalten in unsern einfachen Händen,
im überfüllteren Blick und im sprachlosen Herzen.
Wollen es werden. – Wem es geben? Am liebsten
alles behalten für immer . . . Ach, in den andern Bezug,
wehe, was nimmt man hinüber? Nicht das Anschaun, das hier
langsam erlernte, und kein hier Ereignetes. Keins.
Also die Schmerzen. Also vor allem das Schwersein,
also der Liebe lange Erfahrung, – also
lauter Unsägliches. Aber später,
unter den Sternen, was solls: die sind besser unsäglich.
Bringt doch der Wanderer auch vom Hange des Bergrands
nicht eine Hand voll Erde ins Tal, die Allen unsägliche, sondern
ein erworbenes Wort, reines, den gelben und blaun
Enzian. Sind wir vielleicht hier, um zu sagen: Haus,
Brücke, Brunnen, Tor, Krug, Obstbaum, Fenster, –
höchstens: Säule, Turm . . . aber zu sagen, verstehs,
oh zu sagen so, wie selber die Dinge niemals
innig meinten zu sein. Ist nicht die heimliche List
dieser verschwiegenen Erde, wenn sie die Liebenden drängt,
daß sich in ihrem Gefühl jedes und jedes entzückt?
Schwelle: was ists für zwei
Liebende, daß sie die eigne ältere Schwelle der Tür
ein wenig verbrauchen, auch sie, nach den vielen vorher
und vor den Künftigen . . . ., leicht.
Hier ist des Säglichen Zeit, hier seine Heimat.
Sprich und bekenn. Mehr als je
fallen die Dinge dahin, die erlebbaren, denn,
was sie verdrängend ersetzt, ist ein Tun ohne Bild.
Tun unter Krusten, die willig zerspringen, sobald
innen das Handeln entwächst und sich anders begrenzt.
Zwischen den Hämmern besteht
unser Herz, wie die Zunge
zwischen den Zähnen, die doch,
dennoch, die preisende bleibt.
Preise dem Engel die Welt, nicht die unsägliche, ihm
kannst du nicht großtun mit herrlich Erfühltem; im Weltall,
wo er fühlender fühlt, bist du ein Neuling. Drum zeig
ihm das Einfache, das von Geschlecht zu Geschlechtern gestaltet,
als ein Unsriges lebt, neben der Hand und im Blick.
Sag ihm die Dinge. Er wird staunender stehn; wie du standest
bei dem Seiler in Rom, oder beim Töpfer am Nil.
Zeig ihm, wie glücklich ein Ding sein kann, wie schuldlos und unser,
wie selbst das klagende Leid rein zur Gestalt sich entschließt,
dient als ein Ding, oder stirbt in ein Ding –, und jenseits
selig der Geige entgeht. – Und diese, von Hingang
lebenden Dinge verstehn, daß du sie rühmst; vergänglich,
traun sie ein Rettendes uns, den Vergänglichsten, zu.
Wollen, wir sollen sie ganz im unsichtbarn Herzen verwandeln
in – o unendlich – in uns! Wer wir am Ende auch seien.
Erde, ist es nicht dies, was du willst: unsichtbar
in uns erstehn? – Ist es dein Traum nicht,
einmal unsichtbar zu sein? – Erde! unsichtbar!
Was, wenn Verwandlung nicht, ist dein drängender Auftrag?
Erde, du liebe, ich will. Oh glaub, es bedürfte
nicht deiner Frühlinge mehr, mich dir zu gewinnen –, einer,
ach, ein einziger ist schon dem Blute zu viel.
Namenlos bin ich zu dir entschlossen, von weit her.
Immer warst du im Recht, und dein heiliger Einfall
ist der vertrauliche Tod.
Siehe, ich lebe. Woraus? Weder Kindheit noch Zukunft
werden weniger . . . . . Überzähliges Dasein
entspringt mir im Herzen.
Rainer Maria Rilke

Thomas Bernhard,”In einen Teppich aus Wasser”

”Într-un covor de apă”

Într-un covor de apă
Îmi brodez zilele,
dumnezeii mei și bolile mele.
Într-un covor din verde
Îmi brodez suferințele roșii,
diminețile mele albastre,
satele mele galbene și pâinea cu miere.
Într-un covor de pământ
Îmi brodez șubrezenia.
Îmi brodez noaptea în el
și foamea mea,
și durerea mea
și nava războinică a deznădejdilor mele,
care alunecă peste o mie de ape,
în apa neliniștii,
în apele nemuririi.

-Traducere de Catalina Franco-
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”In un tappeto d’acqua”

In un tappeto d’acqua
ricamo i miei giorni,
i miei dei e i miei malanni.
In un tappeto di verde
ricamo i miei dolori rossi,
i miei mattini azzurri,
i miei borghi in giallo e le mie fette di pane e miele.
In un tappeto di terra
ricamo la mia caducita.
Ci ricamo dentro la mia notte
e la mia fame,
il mio cordoglio
e la nave da guerra delle mie afflizioni
che scivola in mille acque,
nelle acque dell’inquietudine,
inelle acque dell’immortalita.

-Traduzione di Anna Maria Curci-

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”En una alfombra de agua”

En una alfombra de agua
bordo mis días
mis dioses y mis enfermedades.

En una alfombra de verde
bordo mi sufrimiento rojo,
mis mañanas azules
mis aldeas y panes de miel amarillos.

En una alfombra de tierra
bordo mi transitoriedad.
Bordo en ella mi noche
y mi hambre,
mi luto
y el barco de guerra de mis desesperaciones,
que se desliza por mil aguas,
hacia las aguas de la inquietud,
hacia las aguas de la inmortalidad.

-Traducción de Miguel Sáenz-


In einen Teppich aus Wasser
sticke ich meine Tage,
meine Götter und meine Krankheiten.
In einen Teppich aus Grün
sticke ich meine roten Leiden,
meine blauen Morgen,
meine gelben Dörfer und Honigbrote.
In einen Teppich aus Erde
sticke ich meine Vergängnis.
Ich sticke meine Nacht hinein
und meinen Hunger,
meine Trauer
und das Kriegsschiff meiner Verzweiflungen,
das hinübergleitet in tausend Gewässer,
in die Gewässer der Unruhe,

in die Gewässer der Unsterblichkeit.

 

 

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